Leggevo sul sito di Donati della piccola disavventura capitata a Giovanni Mascia, vittima di un titolo di «Primo Piano» che spacciava per nuovo un suo libro (Le tenebre nel Molise) del 2001. Libro, peraltro, abbastanza famoso. E famoso non nel senso della popolarità, magari istantanea, effimera, di certe opere, o di certe trovate, ma proprio nel senso della «fama», ossia della rinomanza, del prestigio, della reputazione. Visto che è stato largamente utilizzato da uno dei massimi studiosi della lingua italiana, Gian Luigi Beccaria, «il professore di italiano – secondo Aldo Grasso (venuto a proposito per altri discorsi) – che tutti avremmo voluto avere». E visti gli apprezzamenti che gli sono arrivati da studiosi di prim’ordine come il professor Michele Castelli, le recensioni di giornali prestigiosi come «L’Osservatore Romano» e via dicendo. Cose, insomma, che restano, e da tener eventualmente presente quando gli operatori locali smetteranno di azzuffarsi con l’italiano, i titoli, ecc. ecc. e vorranno occuparsi di cose serie.
Nel frattempo, anzi pochi giorni prima, e per la precisione il 4 aprile, presso il Teatro Savoia di Campobasso si presentava Da Contado a Provincia. Città e architettura in Molise nell’Ottocento preunitario, libro curato dal professor Aloisio Antinori, docente di Storia dell’Architettura all’Università degli Studi del Molise. Uno studio assai impegnativo, frutto di una ricerca durata circa tre anni e svolta in collaborazione con l’Università “Federico II” di Napoli, “La Sapienza” di Roma e la “G. D’Annunzio” di Pescara, e realizzato grazie ad un finanziamento della Provincia di Campobasso. E proprio il presidente della Provincia, D’Ascanio, nel corso della presentazione ricordava il principale merito del volume, di far conoscere, cioè, «aspetti importanti della nostra realtà, contribuendo a colmare antiche lacune di conoscenza che ci hanno a lungo penalizzato». Sennonché, quando si passa dalle cerimonie ai testi veri e propri, si scopre che tra le numerose chiese prese in esame dallo studio, e in particolare le chiese ricostruite dopo il terremoto del 1805, manca la chiesa di Toro, distrutta e ricostruita ab imis nel corso dell’intero secolo XIX. Su quella chiesa, Mascia aveva pubblicato uno studio monografico formidabile (La chiesa del Santissimo Salvatore a Toro, Lampo, Campobasso 1997), rimasto completamente ignorato dal lavoro di Antinori. Nel quale lavoro, se poi si vuole entrare nei particolari, diciamo scientifici, figura con il dovuto rilievo il capomastro Francesco Fagnani, originario di Pescopennataro e trapiantato sul finire del Settecento a Oratino (prima che un ramo sostanzioso della famiglia di eccelsi artigiani finisse a Monteroduni, dove tuttora vive). Nella ricostruzione della chiesa di Toro, Fagnani fu architetto progettista, ingegnere, appaltatore, capomastro, manovale, come è egregiamente documentato da Mascia, che ne presenta in bella veste grafica i progetti originali. E non stiamo certo parlando di un’opera segreta, o clandestina, essendo perfettamente disponibile nella principale biblioteca pubblica della regione, la “P. Albino” di Campobasso, e reperibile con una ricerca “per soggetto” che richiede pochi minuti, alla voce “chiesa”. Ignorarla significa fare un torto non tanto a Mascia, che ha svolto egregiamente il suo dovere, ma alla ricerca stessa, e a quella esigenza di “colmare le lacune che ci hanno lungo penalizzato” di cui parlava il presidente D’Ascanio.
Non merita particolare attenzione, se non per un rilievo meramente statistico, un’altra disavventura dello stesso genere, capitata sempre a Giovanni Mascia. È avvenuto semplicemente che nei tre lavori che Michela D’Alessio, dell’Università del Molise, ha recentemente dedicato a Vincenzo De Lisio, poeta, glottologo e studioso del folklore, i numerosi studi che Mascia ha dedicato allo stesso argomento non vengano mai nominati. Come se non esistessero. Così succede che la studiosa si trovi a citare due saggi su quattro di un autore, asserendo che gli altri due sono introvabili. Talmente introvabili che Mascia li aveva fedelmente pubblicati nel 1994. Succede che la studiosa parli di un Dizionario “del tutto ignorato”, quando invece il Dizionario stesso è citato (e adoperato) da tutta la bibliografia settoriale che si rispetti, Mascia, ovviamente, per primo, e poi il sullodato Beccaria, Michele Colabella e via discorrendo. Succede che la studiosa, come impresa (a suo dire) altamente meritoria e soprattutto inedita, si arrovelli a sistemare dati biografici che lo stesso Mascia aveva sistemato una decina di anni prima, ecc. ecc.
Amici dello stesso Mascia, il quale, giova ricordarlo, è uno dei maggiori studiosi regionali, per competenza, per rigore, per stile, e per serietà, hanno suggerito l’ipotesi che questi veri e propri torti siano dovuti a una forma di ostracismo, causata da certe vecchie prese di posizione di Mascia contro quello che di solito viene definito l’establishment della cultura locale. Può darsi, anche se la materia non mi sembra granché interessante, e trattarla in ogni caso ci porterebbe troppo lontano. Ciò che conta sono le opere, che rimangono incomplete, e come tali qualificano sé stesse, gli autori, e gli eventuali committenti.
* Pubblicato il 16 aprile 2007 nel blog Cavalli Sanniti, a firma di Michele Tuono.
Oltre che su “Poesie e racconti” di TOROWeb, mi piace pubblicare anche qui, Paesanino, la mia poesia “Un sorriso” con una dedica speciale ad un’amica comune, Veradafne, che ringrazio e saluto con stima e affetto.
Lasciare un sorriso: questo il suo modo di salutare. E fin dall’inizio mi hanno colpito l’originalità e la dolcezza di questo saluto.
Un sorriso
Distende le pieghe dell’anima
e dona luce al tuo viso,
un sorriso.
Un sorriso è l’alba dei sogni
e il tramonto del dolore.
E’ il bastone della tua vecchiaia
e quando credi di aver detto tutto,
sorridi
e ricominci a parlare.
Non ha età il sorriso,
neanche sulla bocca di un vecchio.
Regala quiete
anche quando è finzione,
così per un istante,
come per incanto,
un brivido di pace
attraversa il tuo respiro
e il cuore,
da mille angosce aggrovigliato,
torna a battere il suo ritmo
rinnovato.
Sulla labbra di un bimbo un sorriso
è un giardino fiorito
che allieta la vita.
L’aratro del tempo
solca i tuoi giorni
e un sorriso semina gioie
che l’estate,
felice, raccoglie.
Un abbraccio
Restituisco il sorriso di cuore
…un sorriso , nonostante tutto…
grazie davvero, cara musapensosa, per questo graditissimo e inatteso dono, mi emoziona e mi dà gioia, un pezzetto di gioia che serbo con trepidazione in questi giorni per me tanto bui…
e non so nemmeno chi tu sia…ma questo rende il dono ancor più gradito.
un sorriso
veradafne
Con l’augurio che il futuro ti porti solo tanta felicità, Musa pensosa (ex Incanto lirico) desidera ringraziare e abbracciare un’amica davvero speciale.
Con affetto e stima.
A mia madre
Corre mia madre insieme a me
lungo il sentiero tortuoso della vita,
per me linfa vitale è il suo respiro,
gocce di sereno senza fine.
Ride mia madre insieme a me
e son due soli
quegli occhi rubacuori.
Piange mia madre insieme a me
e il dolore
chiamo col suo vero nome.
Prega mia madre insieme a me
e le sue parole:
un’eco soave dentro il cuore.
Vive mia madre sol per me
e niente al mondo io chiedo,
neanche a un re!
Un saluto
anche questa sulla madre è molto bella. Che strane coincidenze, avevo scritto, pochi giorni fa, qualcosa che iniziava con “piangere- ridere” ma non l’ho mai postato…chissà se un giorno lo posterò.
un sorriso
veradafne
Che piacere ritrovarti Paesanino! Un saluto..Duca Degli Abruzzi
Altro che “Dizionario del tutto ignorato” qui si parla del dizionario della colpevole ignoranza…Io so (lo sento) che Giovanni Mascia è superiore a tutte queste bassezze, perchè uno studioso,vero e profondo , come un vero artista, il premio l’ha già nel rigore e nella serietà delle sue opere e, a lungo andare negli estimatori veri che trova (lo Spirito non è cieco e arriva da ogni parte). Le bassezze bollano inesorabilmente chi le fa e l’ignoranza alleva porci che divorano i loro padroni.
Un saluto
Arturo
Gentilissimo, Artemidoro. Grazie. A te e agli amici un cordiale saluto.
Giovanni Mascia
Cari amici,
“Caranille” fa parte della mia raccolta di limerick sulle contrade dell’agro di Toro.
Nel corso di questi ultimi decenni, con l’avvento della motorizzazione, i “rotoloni” hanno sostituito quelle caratteristiche e imponenti “mete di fieno” che un tempo corredavano le nostre campagne vestendole con l’eleganza della semplicità.
Leggere questo limerick aiuterà, spero, a conservarne vivo il ricordo.
Caranille
‘A méte a faciavame a Caranille,
z’accalecave u sciine bille bille
e stève ‘n còppe tate:
quanta me n’ha ‘mparate
attúrne a quillu pale a Caranille!
COLLE RANELLO. La “meta” (di fieno) la facevamo a Colle Ranello, /
si pressava ben bene (con forza) il fieno (sotto i piedi) /
e mio padre stava in cima (alla meta): /
quante cose mi ha insegnato /
attorno a quel palo a Colle Ranello!
Cordiali saluti
Musa pensosa
Ti lascio un saluto, Paesanino, contenta del tuo riapparire 🙂
Caro Paesanino,
in quella che oggi sembra voler essere l’era del nuovo e del tecnologico a tutti i costi, si rischia di mettere nel dimenticatoio ricchezze inestimabili del passato, come i “Tratturi” e la “transumanza”, cancellando così inesorabilmente una pagina importante della storia economica, sociale e culturale del nostro e di altri paesi che quelle realtà hanno vissuto.
L’articolo apparso su Repubblica e riportato su TOROWeb, mira a sensibilizzare l’opinione pubblica proprio su questi due temi, oggi di grande attualità e il lungimirante progetto di rendere quella del Tratturo una realtà protetta, un nuovo Parco Nazionale, non può che ricevere il mio plauso e quello di tutti coloro che hanno a cuore non solo la salvaguardia dell’ambiente, ma la storia umana che in quell’ambito è stata scritta.
Due volte l’anno, nella tarda primavera prima del gran caldo e in autunno, puntualmente si vedevano passare sul Tratturo della fondovalle del Tappino i “morre di bbrezzjse” e questo era sempre un evento straordinario per i toresi.
Dopo pecore e capre, si vedevano sfilare per ultime anche le mucche e i vitelli e i cani, sempre vigili, seguivano le “morre” passo passo.
Durante tutto il tragitto, le “morre” d’animali giovani viaggiavano sempre separatamente, pronte per essere vendute, una volta arrivate a destinazione, ad allevatori o macellai.
Ogni “morra” era guidata da quattro, cinque pastori che portavano con sé anche cavalli e asini, utili per poter affrontare più agevolmente quel lungo viaggio, nonché per il trasporto di viveri, abiti e tutto l’occorrente per fare il formaggio laddove questi decidevano di fermarsi per poter riposare durante la notte. Li caricavano, inoltre, di paletti di legno e rotoli e rotoli di reti di canapa, che servivano per allestire recinti improvvisati, ma fatti con estrema ingegnosità e destrezza, entro i quali poter riunire il bestiame e dormire più tranquillamente. Appena giunti sul posto individuato per la sosta, infatti, i “bbrezzjse” provvedevano subito a piantare quei paletti, attorno ai quali fissavano le reti di canapa.
I pastori abruzzesi si accampavano di solito negli stessi posti, in terreni confinanti con il Tratturo, di proprietà di loro amici “frontisti” (proprietari dei terreni confinanti con quest’ultimo) che ogni anno attendevano il loro arrivo preoccupandosi di portargli dal paese finanche il pranzo o la cena.
Molti “frontisti” di Toro hanno dato, allora, la loro disponibilità per l’accampamento di quelle “morre” nel proprio terreno, mettendo spesso a disposizione anche i ricetti che vi si trovavano; e per l’uso di quel terreno sono stati sempre ripagati generosamente con formaggi e ricotta fresca dai “bbrezzjse”, prima che questi lasciassero il luogo per rimettersi in cammino.
Inoltre la sosta di tutti quegli animali contribuiva a rendere fertili i terreni che li avevano gentilmente ospitati, con piena soddisfazione dei proprietari.
Si ripartiva all’alba del giorno dopo: in primavera verso la montagna e in autunno verso la Puglia.
Spesso i “bbrezzjse” erano costretti a regalare ai “frontisti” o a svendere per motivi di praticità (semplicemente perché impossibilitati a portarseli dietro), capi di bestiame azzoppati durante il viaggio estenuante ed era un’occasione, questa, che non si lasciava sfuggire chi voleva fare buoni acquisti, comprando a pochi soldi animali che, in breve tempo riusciva quasi sempre a rimettere in piedi, dopo aver provveduto pazientemente a fasciare e a sorreggere con stecche rigide gli arti feriti.
Durante la stagione fredda quei folkloristici pastori erano soliti portare, per proteggersi dal freddo, delle pelli di pecora intorno alla vita ed enormi ombrelloni a fasce circolari coloratissime, per riparare dalla pioggia sé stessi e gli asini o i cavalli su cui montavano. Ed era davvero pittoresco vederli passare con quegli ombrelli in mano, mentre si udiva, anche da molto lontano, il suono assordante dei campanacci, messi al collo degli animali perché se ne potessero sorvegliare meglio i movimenti.
Si racconta che un allevatore, un certo Cristoforo, è arrivato a possedere trentatrè “morre”. E pensare che una sola “morra” contava, a quei tempi, circa quattrocento capi di bestiame! E’ ovvio, poi, che i grandi allevatori erano anche proprietari di vasti appezzamenti di terreno, sia in alta montagna, sia giù in Puglia.
A maggio, poi, si svolgeva a Foggia una grande fiera del bestiame, che richiamava lì anche molti macellai di Toro, i quali ogni volta vi si recavano per acquistare a buon prezzo e facendo ottimi affari, agnelli, capretti e vitelli da carne. La razza abruzzese, infatti, era rinomata per la sue ottime carni cosiddette “pesanti”, sostanziose. Un elemento distintivo delle pecore di quella razza era un gran ciuffo di lana ricadente simpaticamente sulla fronte.
Lungo tutto il Tratturo erano presenti i molti termini che servivano a fissarne i confini, lunghe pietre lavorate e arrotondate in cima, su cui erano incise, come ricorda bene qualcuno, due iniziali: S e P.
Si racconta che spostare volutamente un termine era punibile pesantemente; qualcuno azzarda a dire che questo reato prevedesse anticamente addirittura la pena di morte.
Sia per il passaggio, che per il pascolo sul Tratturo, era obbligatorio pagare una tassa fissa allo stato. Col passare degli anni il Tratturo, sempre più in disuso, è stato spesso preso in affitto dai “frontisti” toresi e adibito a terreno da coltivare o anche solo a pascolo e non si escludono, come ci ricorda l’amico Giovanni Mascia, casi d’appropriazione illecita del suddetto Tratturo, da parte di privati cittadini.
Mi sono premurata di fissare sulla carta “ricordi” che ritengo possano essere degni di attenzione perché, come tutti gli altri, rappresentano un piccolo tassello nella storia del nostro paese. Per l’occasione ho composto un limerick dedicato al Tratturo di Toro e ai “bbrezzjse” che sono felice di proporvi qui.
U Trattúre
Passavene i Bbrezzjse pu Trattúre
che’ tanta mórre e cu passe secúre
e pu’ sènza sparagne,
‘ngrassavene ‘a campagne
tutte ‘lli bèstie spase pu Trattúre.
IL TRATTURO. Passavano i (pastori) “bbruzzesi” per il Tratturo (di Toro) / con tante greggi e con passo sicuro / e poi senza (fare) economia, / ingrassavano (concimavano con i loro escrementi) il terreno / tutte quelle bestie accampate lungo il Tratturo.
Cari saluti a tutti
Musa pensosa
buona domenica,ciao.