L’eremo dell’eros.

Mauro Gioielli, L’eremo dell’eros. La festa dei santi Cosma e Damiano a Isernia, Palladino Editore, 3^ edizione, Campobasso 2000.

Il santuario di Isernia, che si anima in occasione della ricorrenza del 26 settembre

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Si tratta di un’importante indagine di Mauro Gioielli, già apparsa nell’ottobre 1995, con il titolo Priapo, i Dioscuri e le zampogne. La festa dei santi Cosma e Damiano a Isernia, su “Utriculus”, anno IV, n.3 (15), luglio-settembre 1995, pp.4-34, corredata da un ampio e opportuno summary in inglese di Antonietta Caccia (pp.35-39). Un’indagine, quindi, che da tempo era a disposizione di quanti vogliano o debbano approfondire il discorso sulla famosa decifrazione del rito isernino proposta dallo scozzese William Hamilton sul declinare del secolo decimottavo.

 

Come suo costume, Gioielli parte da una dettagliata ricostruzione del contesto storico e sociale in cui il rito avviene, soffermandosi sul santuario isernino; le figure dei santi Cosma e Damiano; i Dioscuri, Castore e Polluce, il cui culto si perpetuerebbe in quello dei due santi cristiani; la chiesa isernina con le sue reliquie; gli zampognari e i fedeli, che animano la festa e la processione, così come vengono celebrate oggi. Quindi, lo studioso isernino affronta decisamente il problema del preteso culto reso a Priapo (fino a metà Ottocento, secondo alcune fonti), culto che nella sua reclamata oscenità, culminante nell’unzione sacrale di genitali malati e nell’offerta di ex-voto fallici (i ditoni di san Cosma, secondo Hamilton, che collega l’eufemismo a una leggendaria reliquia, ovvero il pene disseccato e mummificato del santo), rese famosa la festa isernina nel mondo degli eruditi e dei viaggiatori di duecento anni fa.
Gioielli illustra la relazione di Hamilton; la corrobora con due leggende della tradizione orale isernina, “collegate agli antichi culti per gli organi della generazione sia maschile, che femminile”; disquisisce sull’uso degli oggetti magico-simbolici a forma fallica; e, tuttavia, giunge a conclusione che vanno nella direzione di un netto ridimensionamento della “scoperta” di Hamilton, la quale non regge affatto alla prova del dubbio.
Scrive infatti Gioielli, alla cui competenza, conviene lasciare il prosieguo del discorso, che abbiamo alleggerito delle accurate note in calce:

Non tutto, infatti, sembra “quadrare” e un ragionevole scetticismo ci induce a pensare che, nella sostanza, i riti isernini non erano proprio ciò che il ministro scozzese credette di ravvedervi.
È opportuno, a questo punto, evidenziare i nostri dubbi […]:
1. Hamilton non poté assistere ai riti fallici di S. Cosma perché – come già più volte detto – aveva l’intenzione di venire ad Isernia nel 1781 ma le autorità locali avevano ormai vietato la celebrazione dell’aspetto osceno della festa. Pertanto, nella sua lettera-relazione, il ministro descrive un evento a cui non ha assistito. Lo fa, infatti, di seconda mano, utilizzando le notizie fornitegli da un «signore che era a questa festa nel 1780», la cui testimonianza «è stata confermata in seguito dal governatore di Isernia».
2. Se Andrea Pigonati – come sostiene Carabelli – oltre che essere l’anonimo «individuo d’educazione liberale» è anche l’autore della lettera da Isernia [trattasi del documento apocrifo che insieme agli ex voto priapici è allegato da Hamilton a comprova del suo assunto, n.d.r.] occorre dire che – a giudizio di Torcia – si trattava d’un personaggio abbastanza incline agli “slanci di fantasia” e che vedeva ovunque intrecci tra paganesimo e cristianesimo. Pigonati, però, godeva d’un certo credito a Napoli, per cui, se contattò Hamilton raccontandogli di aver rintracciato il culto di Priapo a Isernia, è probabile che il ministro gli credette.
3. Nella lettera da Iserniasi citano le usanze priapiche di Ottaiti (Tahiti). Ma l’anonimo estensore dell’epistola come poteva conoscerle? Esse, infatti, divennero note in Europa a seguito delle spedizioni del capitano Cook i cui viaggi furono pubblicati in un volume la cui edizione italiana vide luce solo nel 1784. I riti tahitiani, però, dovevano essere noti a Hamilton poiché il suo amico Joseph Banks gliene aveva verosimilmente parlato, avendo partecipato ai viaggi di Cook.
4. I falli isernini giungono al British Museum solo nel 1784 ovvero tre anni dopo la (presunta?) discovery di Hamilton. In tutto quel tempo egli avrebbe potuto facilmente recuperare i ditoni in altre zone del Regno che non Isernia o, addirittura, avrebbe potuto farli costruire apposta. Anche i disegni che Hamilton inviò a Londra potrebbe averli fatti chiunque. Quello pubblicato nel volume di Knight, infatti, raffigura alcuni ex voto fallici offerti presso l’eremo isernino nel settembre del 1780, ovvero prima che il ministro scozzese venisse a conoscenza della festa di San Cosma.
5. Nel 1790, Colt Hoare, venuto ad osservare la festa isernina di San Cosma non vi trovò i Great Toes che cercava.
6. I falli di cera conservati al British Museum (e che dovrebbero essere quelli recuperati da Hamilton) sono giallognoli, mentre varie fonti testimoniano che i ditoni isernini erano fabbricati in «cera rossa». Oltretutto gli oggetti in questione, per come è possibile vederli oggi,non danno la certezza che un tempo siano davvero stati degli ex voto priapici.
7. Hamilton, influenzato da una certa moda di quell’epoca,era alla costante ricerca di “cose strane” e sarebbe stato felicissimo di poter annunciare una scopertasensazionale che gli sarebbe valsa l’ammirazione dei suoi colleghi antiquaries, i quali va detto avevano la propensione a vedere un po’ ovunque i remains di chissà quali antichità.

Dai dubbi fin qui espressi, Mauro Gioielli muove verso conclusioni inevitabili, che riportiamo volentieri, sempre alleggerite delle note in calce, perché crediamo possano proporsi come lezione di metodo (ricostruzione di prima mano e analisi critica dei risultati acquisiti) e benefico antidoto contro la reiterazione del noto, la piaga purulenta che affligge il corpus istituzionale della cultura molisana.

La presenza di ex voto a forma fallica nella Isernia del’700 – a prescindere dai dubbi espressi – è più che verosimile, anzi è del tutto normale in rapporto alla storia e alle antiche religioni del Molise. Si può tranquillamente affermare che, se qualcuno ha davvero visto dei falli di cera sull’eremo dei Ss. Cosma e Damiano, la circostanza non aveva nulla di eccezionale, non era un fatto clamoroso né tanto meno una scoperta. In realtà – come giustamente annotava Masciotta – nell’atteggiamento di Hamilton «vi era della esagerazione», poiché il culto isernino era un fatto «in sé spiegabilissimo». A Isernia non c’era la tradizione di celebrare cerimonie oscene. V’era, invece, il culto verso due santi che venivano chiamati in causa per ogni male di natura fisica; santi invocati per ottenere la guarigione di occhi, di braccia, di gambe, e d’ogni altra parte del corpo, inclusi, perché no?, i membri della generazione. E, in tale circostanza, gli ex voto che avevano l’aspetto degli organi sanati non potevano fare eccezione per quelli sessuali. Per cui, vedere nelle antiche cerimonie in onore dei Ss. Cosma e Damiano solo l’aspetto mutinico [Mutino, aveva spiegato Gioielli in precedenza, era il dio latino e italico corrispondente al Priapo greco, n.d.r.],risultava sicuramente riduttivo, distorceva in parte la realtà, interpretava in modo senza dubbio limitativo la valenza religiosa della festa.
I culti priapici dei Greci e dei Romani erano cosa indiscutibilmente diversa dal riti isernini del XVIII secolo. Già Torcia aveva escluso rapporti diretti e pondus aequales tra gli antichissimi culti pagani e le pratiche settecentesche degli ex voto fallici, poiché la storia di numerose generazioni li divideva. Affermare, come fece Hamilton, di aver trovato a Isernia le reminiscenze religiose dell’antichità classica era come voler dire di vedere distintamente e a chiare tinte una cosa che invece appariva offuscata da secoli di storia; qualcosa di cui a mala pena si notavano le ombre e a cui, probabilmente, si voleva a tutti i costi dare l’aspetto desiderato.
Riteniamo quindi di essere nel giusto sostenendo che la presenza dei ditoni ad Isernia non era certamente un fatto più rilevante di altri all’interno dell’espressione fideistica, collettiva o personale, dei pellegrini che si recavano sull’eremo dei Santi Cosma e Damiano. Era solo una delle tante forme del complesso e variegato modo di rendere “visuale” (attraverso l’oggetto raffigurante la parte del corpo malata) la vis taumaturgica dei due santi medici.

D’altro canto, occorre aggiungere che le offerte falliche isernine andavano interpretate anche come espressioni cultuali di tipo “rurale”, cioè riti svolti per «ottenere un buon raccolto, abbondante e proficuo, indispensabile per assicurare benessere ad una comunità prettamente agricola» qual era, nel Settecento, quella di Isernia e delle zone vicine. Il significato apotropaico degli antichi ex voto priapici, infatti, va ricercato «nell’intenzione di opporre alla sciagura il simbolo della fertilità e perciò del benessere». Priapo, infatti, nasce come re dei giardini e delle colture, il dio della fecondità dei campi ancor più che della fecondità delle donne. Non di meno, bisogna sottolineare come le feminae che non erano in grado di partorire si portavano dentro tutta l’angoscia di questa loro condizione che, al di là dell’aspetto personale di madre mancata, significava non avere in famiglia nuove, giovani e forti braccia per il lavoro nei campi, un lavoro duro e indispensabile per il vivere quotidiano. In tale scenario psicologico, i culti isernini per l’organo sessuale maschile tendevano a favorire la «preservazione» contro la sterilità sia della terra mater che della uxor mater, esprimevano la lotta contro tutto ciò che ostacolava la normale sopravvivenza. Eterna contrapposizione tra mors e vita.

 

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